Anno 1605: la scoperta della cripta e delle reliquie di Sant’Appiano in Val d’Elsa
Le notizie riguardanti il nuovo altare maggiore della pieve di Sant’Appiano si ricavano dal Libro di Ricordi del pievano Pier Francesco di Guccio Gucci da Firenze, in carica dal 1611, il quale narra di fatti accaduti al tempo del suo predecessore, Don Francesco Muzzi da Poggibonsi. Quest’ultimo, nel 1605, decise di rinnovare l’altare maggiore secondo i dettami della Controriforma, per cui si dovettero traslare le reliquie custodite al suo interno. Per seguire l’operazione furono convocati i priori delle chiese suffraganee, due muratori, qualche testimone laico e l’artista responsabile della realizzazione del nuovo altare, Giovanni Battista Nigetti. Tutto fu condotto con scrupolosa religiosità.

Atteso il vespro e intonata la preghiera di rito iniziò l’operazione. Non appena fu spostata la mensa dell’altare, fu visibile una cassa di legno intarsiato, avvolta in un candido panno di lino che al contatto con l’ossigeno si annerì e subito si polverizzò. Vi erano conservate varie reliquie: una spina della croce di Cristo, un frammento di velo e alcuni capelli della Madonna, e due crani, di cui uno corredato di ulteriori ossa. Mancava, però, l’indicazione della loro identità. I prelati sostennero che forse potevano appartenere a San Policarpo e Sant’Appiano, ma il priore di Santa Maria in Castello a Linari, Virgilio Iacometti Cironi, tenne ad evidenziare che la tradizione sosteneva la presenza dei resti mortali di Sant’Appiano dentro una cassetta decorata, e l’altro di San Policarpo.
Tuttavia, il pievano Muzzi volle vederci chiaro, cercava elementi che attestassero la sepoltura e dessero la certezza dell’identità delle ossa. Preso dal fascino dell’indagine, per non lasciar nulla di intentato, fece scavare sotto l’altare in cerca di ulteriori informazioni. Aperto il basamento i signori si imbatterono negli ambienti dell’antica cripta, usata poi come ossario. Contarono più di 100 individui, naturalmente tutti senza nome. Invocando ancora la tradizione, conclusero che si trattasse dei resti mortali dei compagni e discepoli del Santo evangelizzatore. Del resto anche il paliotto dipinto con le storie della vita di Appiano, che decorava il vecchio altare, ormai verosimilmente perduto o distrutto, provava che le reliquie ivi conservate fossero sue.
Del ritrovamento delle ossa senza nome fu informato il Vicario dell’Antella, il quale, non potendone discutere col cardinale Alessandro de’ Medici di Ottaviano, ovvero Papa Leone XI, ordinò di rimettere tutto a posto e di non ritirarle fuori senza formale autorizzazione. Così la cripta restò chiusa per oltre un secolo.
Quindi, per venire incontro alla tradizione del culto locale, quelle ossa senza cartiglio si identificarono con le reliquie di Sant’Appiano. In ogni caso, anche se avessero avuto un nome scritto il risultato non sarebbe cambiato.
La vita di Sant’Appiano secondo Luigi Biadi (1849): tra storia e leggenda
Luigi Biadi, storico erudito originario di Colle di Val d’Elsa ci ha lasciato una gran mole di scritti sulla storia locale dell’area fiorentina valdelsana, che ancora oggi costituisce una base fondamentale a chi si voglia immergere nello studio appassionato del nostro territorio e dei suoi tesori nascosti. Non ha mancato di tramandarci le storie dei santi e beati locali, tra cui il nostro Sant’Appiano, del quale racconta:

«Nel terzo Secolo dell’ Era Volgare nasceva nella Liguria in prossimità di Genova il povero Appiano. Esercitato alla pescagione per aver pane, inoltravasi al mare toscano, fermava alla riva di Piombino. Ivi le massime evangeliche partecipate ai Popoli dal dottissimo Marziale vescovo di Limoges [ndr: patrono di Colle di Val d’Elsa] , talvolta interposte da elogio sulle virtù di Policarpo vescovo di Smirne, produssero non tanto lo slancio di Appiano in braccio alla Fede di Gesù Cristo rigenerandosi nell’acque battesimali da quel sacro Pastore, quanto la di lui ispirazione di conoscere Policarpo. Disprezzati pertanto i pericoli di lungo tragitto, vinti i timori delle pagane persecuzioni, passava a Smirne. Ma Policarpo dalla mano crudele degli infedeli avea (nell’anno 169 sotto Marco Aurelio) perduta la vita, ed il suo corpo era stato dalle fiamme distrutto. Appiano n’ebbe riscontro. Inoltratosi al posto dei martirizzati, bagna la terra delle carneficine con lacrime di tenerezza, trova la recisa testa del Santo vescovo incolume dal fuoco, la raccoglie, e con la preziosa reliquia torna alla spiaggia di Piombino, perviene al Castello di Monteloro in Val d’Elsa. Là pubblica incessantemente la dottrina di Cristo, nelle vicine selve conduce vita di perfezione ed anco eremitica». Secondo il Biadi visse tra il 223 e il 298. Appiano, di fede cristiana, fuggì da una Genova ancora abitata da pagani che lo inseguirono con «navigli grossi» mentre lui solcava le acque con la sua «piccola barchettuccia», come dice Giuseppe Maria Brocchi, in direzione di Piombino.

Rifugiatosi coi suoi discepoli a Monteloro, ovvero a Sant’Appiano, condusse una vita cenobitica predicando e battezzando le genti, facendo opere buone e altri miracoli, che dovevano essere dipinti sul paliotto del vecchio altare, in cattivo stato di conservazione già nel XVIII secolo.
Pare che trovasse rifugio nelle grotte sotterranee scavate nel tufo nei pressi di Monteloro.
La sua fama rese così celebre il luogo, che molti fedeli volevano farvisi seppellire, anche se provenienti da città piuttosto lontane, come Volterra e San Gimignano.
Autori: Alice Chiostrini e Giacomo Cencetti
Un grazie di cuore a Don Soave e ai volontari della Pieve di Sant’Appiano per la disponibilità e l’aiuto nel reperire informazioni e materiali anche in questo strano periodo di pandemia.